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maggio 16, 2008

ONORE A MISTER SPALLETTI.
In questo bellissimo articolo vengono spiegate tutte le differenze fra Spalletti e Mancini ottimo giocatore ma allenatore raccomandato.
Se Roberto Mancini ha sempre avuto il phisyque du rôle
per un ruolo di primo piano nello squinternato
mondo del calcio italiano, Luciano Spalletti è invece
uno che al gessato giusto s’è dovuto affezionare nel tempo
e adesso, giustamente, non lo molla più. E parlare di look
per introdurre il discorso sull’allenatore della Roma non è
un vezzo del cronista. Non per caso, infatti, quando è stato
chiesto allo scarsicrinito tecnico toscano cosa invidiasse al
collega di Jesi la risposta è stata pronta: «Il ciuffo». Quel che
Spalletti non poteva dire riguarda invece tutto il resto che
divide i due contendenti dello scudetto, e cioè che uno è
sempre stato in grado di ottenere tutto quel che voleva e che
l’altro invece ha sempre dovuto far di conto con quel che c’era
in casa. Così i gemelli diversi hanno coltivato le rispettive
differenze fino a farne un rispettivo motivo di vanto. E domenica
se vince Roby sarà la conferma che nel calcio conta
solo farsi comprare i giocatori giusti dal presidente giusto
nel momento politico giusto. Ma se prevarrà Lucio sarà la
dimostrazione che nel calcio contano più il lavoro sul campo
e il buon senso dietro la scrivania.
Ai soldi sono entrambi legati. Magari con richieste diverse.
Come già raccontato, Mancini trattava i contratti direttamente
con Geronzi che poi chiedeva a Cragnotti i piani
per rientrare. Spalletti invece s’è ritrovato alla Roma proprio
nel momento in cui lo spettro del fallimento aleggiava
su Trigoria, logico che oggi i due stipendi viaggino su piani
così lontani tra di loro, a dispetto di ogni risultanza del campo.
Così l’allenatore della Roma guadagna 160.000 euro al
mese, mentre l’interista sfiora i 500.000. E quando Mancini
ha via via abbandonato le società che avevano creduto in
lui (lo fece con la Samp da giocatore, l’ha fatto con la Fiorentina
e con la stessa Lazio da allenatore, e ora si prepara a
farlo con l’Inter, perché nessuno ha dimenticato quella minaccia-
promessa in conferenza-stampa subito dopo l’ennesima
eliminazione dalla Champions League) al massimo ha
suscitato qualche parola di risentimento da parte dei tifosi
e dei dirigenti traditi. Spalletti invece ha dovuto pagare di
tasca sua, l’equivalente di 250.000 euro, rinunciando al premio
per la qualificazione in Champions League che s’era
meritato guidando l’Udinese nel suo anno migliore prima
di arrivare a Trigoria.
All’Udinese era arrivato una prima volta nel 2000 dopo
aver patito un po’ di sofferenze in panchina a Genova (sponda
Samp), dove fu esonerato e richiamato, e a Venezia (eso-
S nerato), le prime dopo i trionfi di Empoli. Lì, dalle parti di
casa sua (è nato a Certaldo, vissuto a Sovigliana e ora risiede
a Montespertoli), Spalletti è diventato uomo, giocatore
e allenatore, dopo aver messo la testa a posto avendo calmato
gli spiriti bollenti da viveur con la bella Tamara, una commessa
del supermercato in cui ai tempi di Spezia il nostro
andava a far la spesa. Spezia, Viareggio, Empoli da giocatore,
Empoli, Genova, Venezia, Udine, Ancona e ancora Udine
da allenatore, posti di provincia o città di mare, posti per
gente semplice e menti raffinate, inevitabile che la formazione
di Luciano prendesse linfa da luoghi così, inevitabile
che proprio a Roma trovasse la sua consacrazione, in una
città eterna, sacra, aperta e d’arte. Quand’è arrivato a Roma,
con Tamara al fianco e i loro due bellissimi bambini, ha usato
parole in linea con i principi della sua vita: «Se riusciremo
a fare cose normali potremo toglierci le nostre belle soddisfazioni.
E provare anche a vincere qualcosa». Non è un
profeta, è un uomo saggio.
Mai pensava, giocando, che uno come lui potesse insidiare
i troni alati dove volteggiavano quelli come Mancini.
Mediano di rottura uno, finissimo trequartista l’altro, Spalletti
pensava a fermare gli altri quanto Mancini a saltarli come
birilli. Eppure a vederli in panchina il pragmatico è l’interista,
che s’è fatto dare i migliori sul mercato e ha solo provato
a metterli d’accordo (con scarsi risultati soprattutto disciplinari),
mentre il geniaccio ispirato è l’altro, che per due
anni non poteva chiedere acquisti e che facendo di necessità
virtù ha trasformato gli svogliati orfani di Capello in assatanati
quanto equilibrati virtuosi a caccia del gol più bello.
Totti è l’uomo che li mette d’accordo, per l’affinità tecnica
che aveva con uno e per quella morale che ha scoperto
con l’altro. Pizarro l’elemento di discordia, per com’era tenuto
in panchina a Milano prima di diventare il faro della
nuova Roma. Chivu lo scippo maldigerito, Mancini (nel
senso di Amantino) il furto che non sarebbe mai rinfacciato.
Quanto alle ombre, nel passato e nel presente di Spalletti
ce ne sono solo nelle chiacchiere di qualche vendicativo
fomentatore da bar. Ma ai sospetti di chi malignava sulle capacità
dinamiche del suo Empoli, il tecnico ha sempre risposto
mettendo a disposizione cartelle cliniche e test in laboratorio.
Il suo doping si chiama Bertelli, il preparatore di
uno staff che resta immutabile negli anni. Anche in questo
c’è una bella differenza.

1 commento:

RECORD ha detto...

basta con i furti, ora serve una squadra che possa sovrastare anche il potere. Ora è il momento di Soros per chi non lo avesse ancora capito, altrimenti a Rosella Sensi gli faranno sempre vincere le copette inutili. TACOPINA IS MY PRESIDENT