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aprile 08, 2008

Auguri Capitano nostro!


MASSIMO IZZI da il romanista.it

Quell’8 aprile del 1955, intorno alle 21, il telefono suonò in un appartamento del Tuscolano. Franco Di Bartolomei, a casa con la primogenita Daniela, di quattro anni, apprese con gioia che suo figlio era venuto al mondo. Il nome era già deciso da tempo, si sarebbe chiamato Agostino, come il nonno materno, venuto da poco a mancare. L’indomani papà Franco si presentò in clinica con il primo regalo per il piccolo Agostino, un pallone adocchiato in un negozio di articoli sportivi e subito acquistato per obbedire ad un’ispirazione arrivata chissà da dove. Franco Di Bartolomei era romanista, aveva iniziato a seguire la squadra giallo-rossa sin dai tempi di Testaccio, gli sembrò naturale fare dono a suo figlio di quel balocco così particolare, una sfera di cuoio dentro cui erano stipati ricordi, sentimento, speranze e, cosa più importante, amore. Anche oggi, se Ago fosse ancora tra noi, quel pallone lo avrebbe avuto sempre accanto, sarebbe magari stato pronto a denunciarne le smagliature, i buchi che qua e là si trasformano in voragini, ma non si sarebbe stancato mai di vederlo rimbalzare. Di un’altra cosa si può essere sicuri, Agostino avrebbe viaggiato e girato il mondo come cronista se ne avesse avuto l’occasione, e si sarebbe divertito un mondo a seguire la Roma in questo suo viaggio della speranza a Manchester.
Amava scoprire nuovi luoghi, diverse culture, gli piaceva anche quando da atleta, candidamente ammetteva: «Quando gioco in una città che non conosco, cerco di assimilarne gli aspetti più importanti e caratteristici, anche se il tempo a disposizione è poco. Credo che uno dei vantaggi migliori per un giovane calciatore sia quello di poter viaggiare. Così passo il tempo libero guardandomi attorno, leggendo e studiando. Ecco, credo che potrei stare senza mangiare ma non senza leggere».
Per questa sua diversità, Di Bartolomei colpiva subito, persino un uomo dal vissuto di Enzo Tortora, quando nel febbraio del 1977 ebbe modo di conoscerlo, ne rimase sorpreso, al punto di scrivere: «Un ragazzo strano questo Di Bartolomei, fuori dagli schemi soliti del giovane arrivato prima alla popolarità e poi alla maturità. Per esempio se ne va in giro con una “126”, quando i calciatori della sua età, con i primi guadagni, si comprano fuoriserie». In quella breve chiacchierata, a guardar bene, c’è tutta l’intuizione, lo splendore e il malessere di due uomini, Tortora e Di Bartolomei irripetibili. Quando il giornalista gli chiede: «Dunque Di Bartolomei ha paura del suo mito, dell’astro nascente che sta sorgendo con lei?», Ago risponde secco: «Sì. In questo mondo sì (…)».
Amava il campo il nostro capitano, anche perché lì, su quel perimetro verde, poteva liberarsi di tutte le paure, farle saltare con le sue bordate. Non avrebbe avuto paura di giocare a Manchester, come non ebbe paura, il 25 aprile del 1984, quando la Roma fu chiamata a recuperare due reti al Dundee United per accedere alla finale di Coppa dei Campioni.
Aveva tanta rabbia in corpo Agostino, nella vigilia di quella gara, Il Barone Liedholm, lo aveva lasciato in tribuna nell’importantissima gara contro la Juventus del 15 aprile. La classifica, quel giorno, vedeva i bianconeri in testa al campionato con 37 punti e la Lupa inseguire a tre lunghezze. Battere i bianconeri, quando al termine del torneo mancavano ancora quattro giornate, avrebbe voluto dire rimettere in bilico assoluto l’assegnazione del titolo. Il record d’incasso fatto registrare all’Olimpico (1.163.190.000 lire), dimostrò quanto i tifosi tenessero a quella gara, ma a mettere paura alla Juventus, pensò solo una traversa di Roberto Pruzzo. Quel giorno, come detto, Liedholm preferì puntare sulla coppia centrale Bonetti – Righetti e per il capitano fu un autentico dolore. A ventinove anni da poco compiuti si era sentito abbandonato, non tanto dal suo maestro svedese, quanto dalla Società, che aveva accompagnato quell’esclusione con un distacco che assomigliava ad un addio.
Di Bartolomei capì proprio allora che la storia con la Roma volgeva verso il passo d’addio. Rilasciò un’intervista al Messaggero, carica di segnali trasversali, giocando con l’arma dell’ironia. Su una cosa, però, fu di una chiarezza deflagrante: «Contro il Dundee giocherò con più rabbia». Quella rabbia, viene trasformata in intelligenza quando l’arbitro Vautrot rilevò un cristallino calcio di rigore in seguito all’abbattimento in area di Roberto Pruzzo. Di Bartolomei studiò il gigantesco Mccalpine e lo spiazzò senza lasciargli la benché minima possibilità di abbozzare la parata. Candido Cannavò, non certo un cantore delle imprese della squadra giallo-rossa, scrisse sulle pagine della Gazzetta dello Sport: «La Roma è stata talmente grande da dare la sensazione che il suo capolavoro fosse in realtà una semplice operazione aritmetica da scuola elementare». Quattro giorni più ardi, nel match contro la Fiorentina, la Curva Sud accolse il proprio capitano con questo striscione: «AGOSTINO E’ LA ROMA, NON PUO’ ANDARE VIA».
Andò via invece, “Ago”, e una volta appese le scarpette bullonate al chiodo iniziò a scrivere. Qualcuno ha detto e scritto che per i tempi dilatati e la scarsa propensione agli entusiasmi a saldo, Di Bartolomei non fosse adatto ai salotti televisivi. Può darsi, ma di certo era una “penna” di prim’ordine, come dimostrato nella collaborazione per Paese Sera. Tanti quotidiani, ci sembra scontato, oggi, gli avrebbero chiesto di inquadrare il match e rivolgere un invito alla squadra. Cosa avrebbe scritto il capitano non possiamo proprio saperlo, piace credere che almeno una cosa non avrebbe evitato di dirla: «Impresa possibile? Impossibile? Nel dubbio, ragazzi tirate più forte e i conti facciamoli dopo».


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